Tracce della Calabria nella fede dei migranti

Da "Il Quotidiano della Calabria" Sabato 22 Novembre 2008 pag. 54

Il superiore generale degli scalabriniani in visita a Briatico racconta le esperienze nel mondo e la sua idea di missione.


SUDAMERICA, 1974. Sergio Olivo Geremia è appena stato ordinato sacerdote quando dal suo Brasile lo inviano in Argentina, a Buenos Aires. «Ricordo che trovai tantissimi italiani, ma soprattutto fui colpito da quanti di loro fossero calabresi» racconta 34 anni dopo il religioso scalabriniano nella casa dei suoi confratelli a Briatico, nel Vibonese. Padre Sergio, nel frattempo, è diventato superiore generale della congregazione che Giovanni Battista Scalabrini, vescovo di Piacenza alla fine del XIX secolo e oggi venerato come beato, volle dedicare all'assistenza degli emigranti. Una storia, quella degli scalabriniani, che parte da un’intuizione lungimirante: quando gli italiani a frotte lasciavano la loro terra in cerca di fortune lontane, Scalabrini fu tra i pochi a rendersi conto che quel fenomeno avrebbe caratterizzato anche i secoli successivi. Insieme a lui, per sua fortuna, c'era il papa dell'epoca, Leone XIII, autore dell'enciclica Rerum novarum e molto sensibile alle questioni sociali. Fu proprio il pontefice a legittimare la vocazione di Scalabrini, che aveva capito che quella povera gente che nel nuovo mondo perdeva tutte le tradizioni a cui era legata avrebbe avuto bisogno almeno della fede. E così i sacerdoti di monsignor Scalabrini cominciarono a partire insieme agli emigranti, ad assisterli durante i lunghi viaggi, a consigliar loro come evitare di essere derubati o truffati da quelli che possono essere considerati gli antenati degli scafisti. Arrivati con gli italiani nel nuovo mondo, gli scalabriniani restavano in mezzo a loro per creare chiese e comunità religiose. Poi tornavano indietro e si accodavano a una nuova carovana. Scalabrini, intanto, attraversava l'Italia: i bastimenti per l'America partivano in continuazione e i religiosi non bastavano. Papa Leone aveva suggerito di reclutare sacerdoti da tutte le diocesi, in attesa di formare i novizi di quella che il fondatore chiamava “congregazione di San Carlo”, ma che tutti conoscevano come famiglia scalabriniana. Anche perché il vescovo di Piacenza non si limitava a chiedere di accompagnare chi emigrava: nella sua idea di apostolato, c'era la convinzione che per capire la gente con la quale ci si metteva in viaggio bisognava conoscere le loro origini, la cultura e gli usi della terra dalla quale partivano. Le comunità scalabriniane sorsero così in tutta Italia e insieme alla spiritualità divennero luoghi in cui si coltivava lo studio e si raccoglievano dati statistici, frammenti di storia e di sociologia. In Calabria arrivarono tardi, gli eredi di monsignor Scalabrini. Intorno al 1960 dal Centro Studi di Roma, padre Sisto avviò una serie di campi scuola estivi. I gruppi scalabriniani si fermavano nei paesi per alcune settimane e organizzavano incontri, dibattiti e feste coinvolgendo in particolare i ragazzi nei progetti di ricerca che servivano ad esaminare la situazione socioculturale e religiosa del luogo. In seguito, alle missioni si aggiunsero i teologi, poi i liceisti e i seminaristi del ginnasio e delle medie: d'estate, insomma, i paesini del Vibonese pullulavano di vivacità spirituale e intellettuale. Tanto da indurre il vescovo di Mileto, Domenico Tarcisio Cortese, a richiedere alla congregazione una presenza più stabile. Nel 1977 vennero affidate “ad experimentum” ai padri scalabriniani le parrocchie di Favelloni e di Conidoni e nel 1979 padre Luigi Favero e padre Graziano Tassello presentarono a nome del Centro Studi di Roma un progetto di documentazione e animazione.Trent'anni dopo, quel progetto è nelle mani di padre Maffeo Pretto, un veneto che ormai si ritiene calabrese d'adozione e che vive sommerso dai libri. Insieme a lui, a Briatico, ci sono padre Luigi Fusco e padre Salvatore Monte. Il superiore generale della congregazione, padre Sergio Olivo Geremia, è venuto a incontrarli in questi giorni. Tra i suoi compiti c'è quello di visitare tutte le comunità scalabriniane sparse nel mondo: «Siamo in 5 continenti e 31 Paesi con più di 600 missioni» spiega. Ma soprattutto, padre Sergio era incuriosito dalla Calabria. Si è fermato per ore a discutere con padre Maffeo: «Ho incontrato calabresi ovunque, mi chiedevo perché partissero dalla loro terra» racconta il superiore generale. Dopo il suo primo incontro con la comunità di Buenos Aires, le tracce di Calabria le ha trovate a Porto Alegre, nel Brasile: «Ricordo ancora che erano originari di Morano e di Castrovillari, erano il nucleo più numeroso insieme ai veneti». Ma i calabresi si presentarono a padre Sergio anche in Australia, a Melbourne e a Sydney. E poi in Germania, in Belgio: «A Marcinelle ancora si vive nel ricordo della tragedia nelle miniere» rivela il religioso. Adesso anche lui si è fatto un'idea della Calabria: «Una terra bella ma difficile, con tante zone montuose e isolate e fenomeni sociali che ne limitano lo sviluppo». La missione scalabriniana riparte proprio da questo, secondo il superiore generale: «Si dice che non basta dare il pesce a chi non sa pescare perché bisogna piuttosto insegnare a pescare. Ma io dico di più: se non basta nemmeno insegnare a pescare, bisogna prendere la canna da pesca e andare a pescare insieme».
Andrea Gualtieri

Commenti

Post popolari in questo blog

Maria Gabriella Capparelli, una cosentina di successo al TG1 di Unomattina

Gli affreschi di Renoir a Capistrano – un mistero svelato

Ciucci di Calabria