L'Arco di Trionfo dei Carafa - Gioiello architettonico in un percorso storico artistico e archeologico in provincia di Reggio Calabria

L’itinerario si snoda nel comune di Bruzzano Zeffirio. Il paese fa parte della Comunità montana dell’Aspromonte orientale. Ha molto da offrire al turista avido di notizie, ma l’attenzione principale è tutta concentrata sul monumento più rappresentativo, detto anche Arco Trionfale dei Carafa o Porta di Città. Si tratta di un notevole gioiello architettonico, rarissimo nella storia dell’Arte calabrese, con caratteristiche specifiche ottenute con l’impiego di mattoni d’argilla, legati da malta a base di calce idraulica. Lesene, basi, colonne, trabeazione, piramidi comitali non conoscono altro materiale. La superficie presenta un intonaco lisciato, nel quale fregi, bassorilievi e decori furono realizzati da maestranze forse locali, abilissime nel fondere il classico rinascimentale delle forme con lo stile barocco delle decorazioni. Purtroppo, gran parte degli affreschi originari è andata perduta anche a causa dell’umidità del luogo. Rimane la bellezza della volta centrale a tutto sesto, innalzata nel Settecento, per chissà quale evento celebrativo o più semplicemente a conferma della potenza dei signori Carafa, duchi di Bruzzano, marchesi di Caulonia e principi di Roccella, e della devozione dimostrata dai loro sudditi. Come porta “ urbica”, è rivolta a oriente ed è collocata lungo le antiche mura perimetrali del nucleo abitativo di chiara impronta medievale. L’aspetto imponente è fuori discussione, confermato com’è dai nove metri di lunghezza alla base e dalle torrette quadrangolari sormontate da piccole piramidi comitali con lesene basali, integrate alla muratura, poste alle due estremità. Rimane il rimpianto di quanto si sarebbe dovuto fare per evitare che perdesse altre sue peculiarità, a causa della vegetazione spontanea e delle precipitazioni atmosferiche. Lo smalto dei primi anni è ormai irrimediabilmente perduto. Non l’interesse per l’opera, che si erge maestosa e solitaria nella campagna, dai precisi connotati selvaggi pedemontani.


L’Arco è una testimonianza muta del passato. Quello remoto ebbe come fulcro il Castello, edificato tra X e XI secolo, su un blocco di arenaria compatta, a 115 metri sul livello del mare. I resti dell’antico maniero si trovano sull’acrocoro, con un dislivello di 25 metri, rispetto all’abitato, adagiato ai piedi della rupe, conosciuta come Rocca Armenia, secondo la denominazione ricevuta dai turchi, che l’avevano scelta come base di partenza delle loro scorrerie, temutissime in tutto il territorio interno e costiero. Gli annali di storia indicano il 925 come anno della resa ai saraceni, rimasti padroni della situazione per secoli. Nel 1278, Bruzzano diventò feudo di Giovanni de Brayda. Per il passaggio a Pietro d’Ayerbe de Aragona, marchese di Grotteria, bisognò attendere il 1592 mentre i Carafa, nobili d’origine partenopea, ne ottennero il ducato nel 1621.

L’abitabilità del Castello è documentata fino all’Ottocento. Gli ultimi rimaneggiamenti risalgono ai primi anni dello stesso secolo. Poi è andato via via in rovina, con la complicità di catastrofi naturali, relativo abbandono e scorrere inesorabile delle stagioni. Le strutture che si possono identificare, corrispondono all’area difensiva militare a pianta quadrangolare, alla residenza gentilizia vera e propria, e alla cappella, unico luogo di culto. La piazza centrale è ricca di cisterne scavate nella roccia per la provvista di acqua piovana. Anche le prigioni sono di roccia naturale mentre all’esterno dei muri perimetrali sono visibili i resti di contrafforti di recinzione della rocca. Su torri di guardia e sala d’armi, sono aperte piccole feritoie. Oltre alle strutture in muratura, ci sono ambienti funzionali trogloditi.
Il compito di rendere fruibile l’area archeologica, comprendente anche Oratori basiliani, Fontane monumentali, Chiesetta dell’Annunziata e Chiesa di Santa Maria della Catena, è stata affidata all’architetto Michele Canturi, co-progettista e direttore dei lavori di consolidamento e recupero del Castello e dell’Arco di Trionfo.I risultati ottimali ottenuti sono sotto gli occhi di tutti, lungo percorsi impensabili fino a qualche anno fa. A Bruzzano convivono il vecchio e il nuovo centro senza propaggini consistenti nella zona litoranea. Ben altrimenti deve essere stato al tempo dello sbarco dei primi colonizzatori sul tratto di costa, caratterizzato dalla presenza del promontorio bruzio e dal soffio costante dello zefiro (vento di ponente leggero, gentile). La comunità proveniente dalla Locride, si moltiplicò in fretta, tanto da ramificarsi in nuclei abitativi limitrofi al territorio inizialmente occupato: Locri Zefiria, oggi Palazzi in agro di Bianco, e Locri Epizefiri, a venti chilometri di distanza, nella zona archeologica dell’omonima città moderna. Al vecchio paese fondato nell’interno, qualcuno attribuisce origine diversa, per via della distanza dallo Jonio. I greci preferirono sempre insediamenti stanziali in riva al mare, dunque furono i bruzii a scegliere di ritirarsi nell’entroterra, considerato ultimo loro baluardo di difesa di fronte all’avanzata dei nuovi arrivati. Storici di grosso peso, propendono per questa tesi, supportati dalla frequenza del termine Bruttianus (villaggio bruzio), anteriormente al periodo della Magna Grecia (VIII e VII secolo).
I normanni non furono da meno; difatti, preferirono l’interno del territorio alla costa più indifesa. Di loro restano tracce a Motta (oggi frazione Motticella), costruita su cumulo conico artefatto, com’era abitudine dei popoli del nord Europa.
La riscoperta del passato, passa anche attraverso la rivalutazione di 152 palmenti (vasche ricavate nella roccia, per la pigiatura dei grappoli, la produzione del mosto e la raccolta del vino), rinvenuti nei pressi di Ferruzzano, che anticamente faceva parte di Bruzzano. Far tornare in auge la coltivazione di vitigni autoctoni è una bella realtà, portata avanti dall’Associazione Nazionale Città del Vino, proprietaria di sette ettari di terra. Il progetto comprende seminari di studio e ricerca della Facoltà di Agraria dell’Università di Milano. Il campo collezione, finanziato dalla Regione Calabria, accoglie 200 vitigni, molti dei quali ritrovati in campi abbandonati. A conferma che l’Italia è Enotria (Terra di vini) anche nel Terzo Millennio.
Emma Viscomi

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