Verità e riflessioni sul 150° anniversario dell’Unità d’Italia

A scuola ci insegnavano tutto sulla Spedizione dei Mille, provavamo emozioni intense con i “trecento giovani e forti…” di Pisacane, studiavamo con precisione i luoghi delle Guerre d'indipendenza, venivano decantate le doti dei padri della patria, ci appassionavano figure di uomini e donne distintisi con la loro abnegazione e coraggio nelle file della Carboneria, spesso si cantava l’inno di Mameli, e anche quello che celebrava la “bandiera di tre colori”. A margine, però, quando si esaminava l’evento brigantaggio non riuscivamo a comprendere la verità sul come e perché fosse sorto. Indro Montanelli sull’argomento affermava che “La guerra contro il brigantaggio, insorto contro lo Stato unitario, costò più morti di tutti quelli del Risorgimento. Abbiamo sempre vissuto sì dei falsi: Il falso del Risorgimento che assomiglia ben poco a quello che ci fanno studiare a scuola”.
La storia del nostro Risorgimento esibisce spesso le gesta eroiche di tante persone dimenticate che, pur di permettere la cacciata dell’invasore straniero, si sono sacrificati per liberare il territorio italico. Certo, l’anelito alla libertà dei popoli, i principi di giustizia e di fraternità che richiamavano allora gli ideali della rivoluzione francese non possono che essere condivisi ancora oggi. Ciò che in verità deve farci riflettere è il reale svolgimento dei fatti risorgimentali. Si è giunti, così, a sacralizzare personaggi come Mazzini, Garibaldi, Cavour, Vittorio Emanuele II, condannando senza appello il popolo del Sud che si ribellava oltre che ai Borbone anche alla dominazione piemontese. Tanto che Eugenio Bennato in una sua canzone sull’argomento “Brigante se more”, in alcuni versi dice: “non ce ne fotte del re Borbone ma la terra è nostra e non si deve toccare. Il vero lupo che mangia i bambini è il piemontese che dobbiamo scacciare”.
Il processo di unificazione della penisola italiana ha avuto tutte le caratteristiche di una vera e propria guerra civile. Una guerra di conquista, come annota Giordano Bruno Guerri nel suo libro “Il sangue del sud”. Per annettere il Regno delle due Sicilie al Regno Piemontese “Il Sud è stato trattato come una colonia da educare e sfruttare, senza mai cercare davvero di capire chi fosse l'"altro" italiano e senza dargli ciò che gli occorreva: lavoro, terre, infrastrutture, una borghesia imprenditoriale, un'economia moderna. Così, le incomprensioni fra le due Italie si sono perpetuate fino ai nostri giorni”.
L’esercito piemontese riuscì nell’intento di liberare la Sicilia e il Sud dai Borbone con l’aiuto da parte degli inglesi, dei massoni, e quasi sicuramente con l’intervento determinante degli uomini della mafia e della camorra. Ecco che da quel 17 marzo 1861 ha inizio tutta una serie di fatti economico-politici che porteranno ad un divario economico e sociale tra le due aree geografiche ancora presente nel territorio meridionale. Fu praticamente depredata la cassa del sud e più di 450 milioni di lire servirono per ridurre il deficit del Piemonte, e per altri investimenti come costruire ferrovie e strade del nord. Gli appalti per i lavori, anche quelli nel sud dell’Italia, furono quasi tutti appannaggio di società del nord, cercando in tutti i modi di rendere inattive le industrie del mezzogiorno. Tanto è vero che in un’azienda efficiente come quella di Pietrarsa, vicino Napoli, di colpo furono interrotti i cicli produttivi, con migliaia di operai licenziati, a favore di un’industria del nord, l’Ansaldo. Questo protezionismo di fatto per le industrie del settentrione andarono ad aggravare sempre di più le condizioni degli operai oramai senza lavoro, vessati anche da tasse molto più alte, che non avevano altre alternative se non quelle dell’agricoltura – anch’essa in grave crisi, mentre i latifondisti si arricchivano sempre più – o la scelta drammatica di rinsaldare le fila del brigantaggio, oppure trovare un’altra soluzione lasciando l’Italia. Tutti temi questi che entreranno nella cosiddetta “questione meridionale” dibattuta negli scritti di Giustino Fortunato, Salvemini, Gramsci, Croce, Nitti.
Per Antonio Gramsci “L’Unità d’Italia non è avvenuta su basi di uguaglianza, ma come egemonia del Nord sul mezzogiorno. Il Nord concretamente era una “piovra” che si è arricchita a spese del Sud e il suo incremento economico-industriale è stato in rapporto diretto con l’impoverimento dell’economia e dell’agricoltura meridionale”.
Il governo piemontese dell’epoca inasprì con leggi severissime le condizioni economiche dei meridionali, così che divenne quasi naturale la rivolta contadina, che diede vita al fenomeno del brigantaggio. Come riportato da Franco Molfese nel suo libro “Storia del Brigantaggio”, le bande di briganti interessarono: la provincia di Napoli con 6 gruppi armati, l’Irpinia e la provincia di Salerno con 47, la Calabria con 33, la Basilicata con 47, il Molise e il Sannio con 15, la Puglia con 34, l’Abruzzo con 39, il Lazio con 42. Per rappresaglia furono bruciati e rasi al suolo interi paesi. Migliaia di morti a Gaeta, a Pontelandolfo, centinaia in provincia dell’Aquila, a Vieste, a Bronte, a Civitella del Tronto, nel Salernitano, in Sicilia 5000 morti nel 1866.
Vennero soppressi gli ordini religiosi, molti preti e vescovi furono mandati in esilio. Di quest’ultimi ben sessantanove, oltre a due cardinali: Sisto Riario Sforza a Napoli e Filippo De Angelis a Fermo.
Come si può ancora tacere, pertanto, sugli eccidi, scempi, razzie, perpetrate dall’esercito sabaudo nel meridione? Sarebbe giusto che si riscrivesse in maniera trasparente la storia del Risorgimento italiano per capire una volta per tutte quali strategie, quali piani siano stati adottati dai politici e dai governanti del tempo per cacciare i Borbone, per annettere il Regno delle Due Sicilie, per stroncare il fenomeno del brigantaggio, per liberare la città di Roma.
Perché molti paesi del sud hanno dovuto subire angherie inenarrabili, per la maggior parte celate dai libri di storia? Sono domande legittime che molti si sono posti anche in questi giorni di riflessione. Come si potrà dimenticare, a tal proposito, ciò che scrisse lo stesso Garibaldi: “ Quando i posteri esamineranno atti del governo del parlamento italiano durante il risorgimento vi troveranno cose da cloaca”. Tutto ciò, allora, non piace diffonderlo. E’ meglio che tutto resti nell’oblio. Di quel periodo storico si devono ricordare solamente le gesta eroiche da studiare durante il periodo scolastico, facendoci riempire la bocca con le parole unità, patria, libertà, con un’enfasi celebrativa che non preveda che si parli dei fatti tragici che realmente accaddero in quegli anni per giungere alla proclamazione del regno d’Italia unita. E’ difficile fare una stima delle vittime della guerra civile, secondo alcuni storici fino a un milione di meridionali persero la vita. L’Italia fu fatta anche con la “Legge Pica - Peruzzi”, prima vera legge razziale ante-litteram varata dalla Destra storica che consentì di fatto la persecuzione dei Meridionali. Gramsci, nel 1920, definì il governo sabaudo «una dittatura feroce che ha messo a ferro e fuoco l’Italia Meridionale e le isole, squartando, fucilando, seppellendo vivi i contadini poveri che scrittori salariati tentarono di infamare col marchio di briganti”.
Allora, quale valore può essere dato oggi a questa ricorrenza?
Se andiamo a scorrere le cronache del tempo, nel 1911 la commemorazione del 50° anno della proclamazione del Regno d’Italia fu vissuta con grande entusiasmo da parte della nazione, cosa che non accadde nelle celebrazioni del centenario, nel 1961, che evidenziarono lo scarso interesse degli Italiani, un chiaro distacco dal senso patriottico e dai valori della tradizione risorgimentale, forse legato anche alla triste esperienza del ventennio fascista e della seconda guerra mondiale.
Non si può di certo affermare che il mondo dell’informazione si sia tirato indietro nelle celebrazioni di questo 2011. Il fatto stesso che già da alcuni mesi radio, televisione, quotidiani, riviste, affrontino queste questioni è un segno della volontà di capire, partecipare ed informare sulla nostra storia risorgimentale. Anche le librerie sono stracolme di nuovi testi o di ristampe di volumi sull’argomento. La scelta governativa di festeggiare questo 17 marzo ha trovato dissenzienti alcuni esponenti del governo, la presidente di Confindustria, i rappresentanti della Lega Nord che ritengono la manifestazione una “follia incostituzionale” che non potrà essere condivisa da tutti gli abitanti del territorio nazionale. Contro le celebrazioni si sono espressi, tra gli altri, il Movimento Rifondazione Borbonica di Rinascita Meridionale e gli Altoatesini. “Giornata di lutto nazionale” è stata dichiarata dal giornalista scrittore Mimmo Lanciano, calabrese di nascita e nello spirito, che vive da molti anni ad Agnone, in provincia di Isernia. Lanciano afferma di non essere contro l’Unità d’Italia, “ma per la piena verità storica ed il conseguente riconoscimento dei torti inflitti al Sud e, quindi, per i dovuti risarcimenti economici, politici e morali”. Questa giornata dovrebbe rappresentare, per lui, la “Giornata della memoria mondiale dei popoli”, “La Giornata dei popoli oppressi” per riflettere sui piccoli e grandi genocidi avvenuti nel corso della Storia umana”. Mimmo Lanciano, a margine di queste sue riflessioni, ha di nuovo invitato il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano a recarsi a Catanzaro per celebrare il nome “Italia” nato proprio in quella zona della Calabria quasi quattro millenni fa. Il nome deriverebbe dal vocabolo Italói, significa “abitanti della terra dei vitelli”, come venivano chiamati dai greci i Vituli, una popolazione che abitava nei pressi di Catanzaro. Antonio Grano, scrittore di origini calabresi, residente nel Molise, dopo aver scritto due libri sull’argomento: “La chiamarono unità d’Italia” del 2009 , “Io, brigante calabrese” del 2010, nell’ultimo suo testo pubblicato nel 2011,“Pietà per i vinti!” ci racconta dei tanti molisani che persero la vita in quegli anni. “Caddero durante una guerra non voluta, non dichiarata, ma solo combattuta in difesa della loro terra invasa e calpestata dai franco-piemontesi che occuparono i loro villaggi non spiegando che volevano fare l’unità dell’Italia”. Isernia pagò un tributo di sangue per essersi schierata a favore del re Borbone. Subì l’atroce vendetta dell’esercito piemontese che uccise centinaia di pastori e contadini inermi. Entra nel dibattito anche lo storico molisano Emilio Gentile che nell’ultimo libro “Italiani senza padri” designa un Risorgimento senza eredi, una sorta di "smonumentalizzazione" del movimento ottocentesco. Per Gentile, nel calendario delle festività nazionali, il Risorgimento non lascia traccia, così come manca, negli annali della letteratura, un romanzo sul Risorgimento. “Il nostro è un paese carente d'identità patriottica. La nostra mancata coscienza nazionale e civile è stata sostituita da un generico senso di italianità, che costantemente oscilla tra miseria e nobiltà, in un processo di smarrimento collettivo, accentuato da una disordinata modernizzazione rimasta priva di una guida politica”. Del resto, Emilio Gentile, in un precedente libro: “La Grande Italia” del 1997, già aveva affrontato i temi del mito della nazione, che aveva subito un’ascesa e un repentino declino in seguito agli avvenimenti successivi alla proclamazione del Regno d’Italia (i due conflitti mondiali, il ventennio fascista, la repubblica), tanto da indebolire proprio l’identità nazionale degli italiani. “Abbiamo capita l’Unità d’Italia con l’inizio della guerra partigiana nel ’43”, così si esprime Giorgio Bocca. “Mai come allora ci rendevamo conto che la sopravvivenza dell’Italia come nazione unita ci pareva indiscutibile. Così c’erano i fazzoletti verdi di Giustizia e Libertà, quelli rossi dei garibaldini filocomunisti, quelli azzurri dei monarchici e degli autonomi”. Il significato da attribuire a questa festa sta tutto nel comprendere che indietro certamente non si torna. Abbiamo raggiunto un’unità geografica nel 1861, dobbiamo, forse, ancora “fare gli italiani”, come dichiarò Massimo D’Azeglio. E’ giunto il tempo, proprio per tutto ciò, di rivestire di verità le celebrazioni e una giusta volontà di giustizia deve permeare il cammino della nostra storia unitaria.
Ha ragione Gigi Di Fiore che, in “Controstoria dell’Unità d’Italia”, dichiara che «Non ci può essere futuro per un Paese che non sa riconoscere i suoi errori, che non sa fare autocritica anche su entusiasmanti pagine della sua storia come quelle risorgimentali. Rileggerne i passaggi negativi oggi non può che cementare il nostro sentimento nazionale». Per i vescovi italiani l'unità nazionale raggiunta 150 anni fa dovrebbe divenire sempre più un’unione morale e spirituale, facendo appello alla solidarietà, alla giustizia sociale, al rispetto della vita e della dignità della persona umana.
Il Presidente Giorgio Napolitano dando il suo pieno appoggio alle celebrazioni, ha affermato che “quello che più conta è che ci sia piena e attiva consapevolezza, a tutti i livelli istituzionali, del significato delle celebrazioni per questo storico anniversario: e cioè, della necessità di farne occasione di riflessione seria e non acritica”.
Antonino Picciano

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