Il baule dell'emigrante - La storia di una famiglia in cerca del sogno americano da Cariati alla "Nova" York degli anni '20

Il 23 ottobre scorso, a Roma, presso la Gipsoteca del Complesso Monumentale del Vittoriano, ha aperto i battenti il Museo dell’emigrazione italiana (Mei), un’in - teressante rassegna strutturata in un percorso storico- cronologico, rivolta ad offrire la visione d'insieme di un fenomeno che ha coinvolto paesi e popolazioni di molte regioni italiane. Nel museo sono stati riordinati e riposizionati materiali arrivati da 45 “prestatori”e da molti privati desiderosidi condividereuna testimonianzadellaloro storiafamiliare. Per quanto riguarda la diaspora calabrese, i materiali documentari esposti appartengono alla raccolta “Le stanze della luna” di Franco Vallone, già direttore del museo “Gio - van Battista Scalabrini”, fondato nel 1995 a Vibo Valentia e poi trasferito a Francavilla Angitola (VV). Il museo deve la sua nascita al ritrovamento, da parte delmissionario scalabriniano Maffeo Pretto, di un baule del 1910 appartenuto a un calabrese emigrato in Argentina; lo stesso che, insieme ad altri analoghi, concui i migranti trasportavano le loromasserizie, e a cimeli, fotografie, documenti d’identità e di viaggio, è possibile ammirare nell’esposizione di Roma. Il “pre - statore”calabrese ha, infatti, inteso proporre la parte della suacollezione denominata, appunto, “Il baule dell’emigran - te” che, in forma di mostra itinerante, ha già attraversato molte località regionali e italiane, arrivando anche in America, dov'è stata esposta in rassegne molto importanti.
Non credo che in Calabria esistano famiglie senzauna vecchia valigia o una più moderna “Samsonite” che richiami una partenza, un percorso, la scommessa di ridefinire “altro - ve” qualche vita. Per questo è grande la forza evocativa del “baule dell’emigrante”, appartenuto a un tal Domenico Italiano di Cessaniti, nel Vibonese, che, nel 1910, attraversò per la prima volta l’Altlantico, con la speranza di realizzare il suo “sogno americano” a Buenos Aires; quel baule, dopo averlo accompagnato in tanti ritorni, è finito in una vecchiacasa di Favelloni, frazione di Cessaniti, dov’è stato ritrovato, col suo prezioso contenuto di storia e memorie, da padre Maffeo Pretto e dai giovani del Centro Studi Scalabrini di Briatico, che, conla mostra curata daFranco Vallone, lo hanno restituito alla memoria collettiva.


A me, in particolare, ricorda due grossi bauli che, nel 1928, hanno attraversato l’oceano fino agiungere nella casa colonica in costruzione su un fertileterreno della costa jonica cosentina, delimitato da gelsi, muraglie di fichi d’India e, sul lato mare, da siepi di tamerici: la piccola proprietà in cui, alla fine degli anni Venti del Novecento, si è materializzato il “so - gno americano” di mio nonno Leonardo Scorpiniti, classe 1892, rimpatriato nella nativa Cariati dopo otto anni intensamente vissuti a New York, anzi, a “Nova” York, che, con il suo aggettivo, qualificava anche la “Mèrica ricca” delle metropoli industrializzate rispetto a quella ritenuta più povera, e cioè l’Argentina, dove, per i migranti, il lavoro era agricolo e d’allevamento, nelle sue praterie sconfinate. Nonfuper bisogno,maunachiaraideadi progressoe,forse, per un inconfessato desiderio di fare fortuna, che il nonno scelse di andare, all’indomani della Grande Guerra in cui aveva combattuto, subendo anche il dramma della prigionia; una decisione non facile, dal momento che la giovane moglie, Assunta Pignataro, lo aveva appena reso padre del suo primogenito, maentrambi neeranoconvinti.Del resto,nondoveva fuggire, come lamaggior parte dei compaesani, situazioni di miseria e di sfruttamento; il nonno avrebbe, infatti, potuto condurre qualche masseria come suo padre Fedele, che aveva lavorato una vita con questo tipo di contratto agrario, eper questogodeva della fiduciadei possidentidi Cariati e delle zone limitrofe. Ma ora occorreva riprendersi, rinnovarsi, entrare inunanuova storiadacostruire…Era il1920, uno degli anni dimaggiore emigrazione transoceanica italiana (500 mila persone), e, quindi, di partenze continue, oltre che perstati di assoluta necessità, per iricongiungimenti, i richiami di parenti ed amici, o, comenel caso di mio nonno, per l’ambizione di progredire.
Ariguardo loscrittoreCorradoAlvaro, nel celebrediscorsosullaCalabria, pubblicatonel 1931acuradell’editrice fiorentina “Nemi”, nota che quelle partenze «furono rapidissime, intelligenti, guidate da un istinto preciso, come i viaggi delle formiche nelle aie d’estate…». E Cariati, annotano gli studiosi di storia locale in riferimento a una delibera consiliare datata 9 ottobre 1906, era addirittura rimasta «senza personale per lo spazzamento» quando era emigrato per le Americhe “tal Lombardi Salvatore”, l’ultimo spazzino. Nonno Leonardo non si sottrasse, dunque, a quell’esodo, e, con due suoi compaesani, Cataldo Abruscia e Cataldo Graziano, raggiunse in treno Napoli, per imbarcarsi per gli Stati Uniti. Infondo, per lui si trattava di seguire la via già tracciata dalla sorella Filomena, emigrata, con la sua famiglia, già da una decina di anni.
A quel percorso, e agli stati d’animo che possono essere stati compagni del nonno, nella sua avventura americana, ho spesso pensato, cercando di immedesimarmi in quello che può aver provato prima dell’arrivo a Ellis Island, l’isoletta all’ombra della Statua della Libertà che era l'accessoin America per milioni di immigrati giunti con i bastimenti. Ho provato a rivivere unodei momenti difficili di quel viaggio durato quaranta giorni, e mi piace descriverlo così: «…Guardò il cielo da troppo tempo era unito al mare, come un’unica, grande tela dipinta da correnti e da nuvole. Vedeva i piccoli cumuli ignari delle tensioni e dei tumulti che gli scuotevano l’anima, in quel momentoancora distante dai suoi sogni e già così lontano dagli affetti rimasti, alla partenza, dietro la scia del piroscafo che percepiva come il prolungamento del tratto ferroviario dalla sua Cariati a Napoli, fino al porto…Affetti di cui sentiva un maledettobisogno, maoccorreva unatregua, adesso, per nonmorirne. Era la naturaa suggerirglielo, con la sua apparente indifferenza, ma che, invece, locullava trale sue sfumature d’azzurro cosparse di morbidi batuffoli. “Quannu ‘u ciélu è fàttu à pàni, s’ù chjòva oji, chjòva domàni”, gli diceva suo padre, nei pomeriggi passati fra i campidel Salto,a preparare il terreno prima che arrivassero le piogge d’autunno. Sorrise, e il pensiero del genitore avvezzo ad infarcire le considerazioni con efficaci note di saggezza contadina, lo distolse dal suo martirio, restituendolo all’insaziabile curiosità che lo spingeva a muoversi, ad andare per scoprire e conoscere e,soprattutto, alla ferma volontàdi realizzare inpochi anni quel disegno americano che lo avrebbe restituito alla terra, non del signore di turno, ma finalmente sua…».
In realtà il nonno non ha mai potuto descrivermi quel viaggio perché,quando nel1968se n’èandatoper sempre, io ero piccola; me ne ha parlato mio padre Giuseppe, terzo degli altri sei figli avutidopoil rientro in patria: «Nelle sere d’inver - no,quando ci sedevamo tutti intorno al camino, ci raccontava i fatti dell’America; a noi, però, piaceva sentire dei giorni passati sul bastimento, e chiedevamo: e se ti prendeva ‘ù mare ’e levante?Rispondeva: non mifaceva impressioneperché la nave era più “possente”…».


Arrivato, dunque, a New York, ci fu una breve fase di adattamento nelcontesto di quell’emigrazione italiana che, oltre ai disagi dello sradicamento, presentava molti lati oscuri, soprattutto in fatto di malavita organizzata che, diceva il nonno, «in Italia “non si notava”, ma là c’era…». Riuscì a lavorare quasi subito in uno stabilimento metalmeccanico e, la sera, in vari opifici, fino a tarda notte (“a nero”, si direbbe oggi). «Imestieri moderni piùvicini allameccanica e alla chimica, impressionarono in modo incredibile gl’ingegni dei pastori e dei contadini…», scrive,ancora,CorradoAlvaro,rappresentando, quasi, l’impegno del nonno a ridefinirsi completamente nel grande Paese che, nel suo inarrestabile sviluppo, aveva bisogno di tanta manodopera. Avendo, dalla sua, unalunga pratica euna considerazionenobilissima del lavoro, oltre alla tenacia e alla pazienza di costruire, che gli venivano dall’origine contadina, non ebbe difficoltà a svolgereottoannidi lavoroduro e continuo.Lamoglie, (nonnaAssunta), chiamata, in paese, “gnura” Assunta per la sua arte raffinata di maestra tessitrice, e che scambiava col marito lunghe lettere e, ogni tanto, qualche foto in cui appariva col suo vestito più bello,gli ori da sposa e, accanto, il loro bambino, ebbe unaparte determinantenelprogetto migratoriodel marito perché fu lei a gestire le prime rimesse, con le quali comprò la bella casa del Ponte (il punto più panoramico del centro storico, da cui si domina l'abitato della Marina) e, in seguito, altre abitazioni (quelle tipiche, con stalla e ballatoio) che sarebbero servite al progresso della famiglia. Alla casa colonica e ai terreninell’agro di Cariati, che,negli anni a seguire, sarebbero diventati una fiorente azienda agricola, in grado di offrire lavoro a parecchi braccianti, pensò lui al ritorno, che fu uno solo, e definitivo, nel 1928.
Dopo circa un mese arrivarono anche i suoi bauli in legno massiccio, con robustemaniglie di ferro e l’interno inlamiera sottile.Nel preparare il suoritorno, il nonnoaveva cominciato piano piano a riempirli di “cose ira Mèrica”; poi li aveva spediti via mare, prima di partire. Di quei bauli, si è avuta a lungo, nella famiglia di mio padre, un’idea quasi mitica; con il loro contenuto, rappresentavano, infatti, la vicenda americana, tutto il nuovo conosciuto oltreoceano e il benessere acquisito; non a caso vennero in seguito utilizzati per conservarvi, sul fondo, i risparmi chela nonna, moneta permoneta, riponeva in un fazzoletto annodato, per le spese straordinarie oper qualche imprevisto. Il nonno, nel suo ultimo periodo di emigrazione, vi aveva raccolto, innanzi tutto, insieme a varie immagini del protettore di Cariati, San Cataldo, al quale era devotissimo, tutte le lettere e le care foto della moglie e del figlio che, intanto, aveva fatto incorniciare insiemea quelle in cui egli, elegantissimo,posava con parentie amici “calabresi” d'America; aveva davvero bei “cu - stumi”, ovvero abiti da uomo, di varia foggia e tessuto, completi di gilet e camicia. Spuntarono da uno dei bauli con un bellissimo orologio d’oro massiccio con catena, che mio padre ha custodito come unareliquia fino a qualcheannofa, quandohavolutodonarlo al piccoloGiuseppe, figlio del mio unico fratello Leonardo, nel giorno del battesimo. Dai bauli uscirono fuori anche un grammofono, che, con i dischi divinile ela sorprendentetromba acusticaservì, poi, per animare tutte le feste e le riunioni di famiglia, e un paio di curiose scarpe a punta che vennero regalate a un pastore “sempre scalzo” perché non poteva permettersi l’acqui - sto di un paio di calzature. Felicissimo del dono, costui le indossò, ma, lasera, ripassòancora a piedi nudi perché «non ci sapeva camminare » e, per la rabbia, le aveva buttate in undirupo. La cosa che, però, occupava il maggiore spazio, inqueiparticolari scrigni,eranogliattrezzi agricoli come «le azzurre accette d’ac - ciaio con la marca di Nuova York», pure dipinte dalla penna del grande scrittore calabrese e chiaro simbolo delle nuove energie, dei nuovi usi e del nuovo stato, non più subalterno, di mio nonno contadino.
Credo sia partito anche dalla storia di questi bauli ilmio interesseper le tematiche dell'emigrazione che, con varie modalità, ho indagato, conosciuto, approfondito. Di certo, il racconto che ne ho sempre sentito fare ha colpito il mio immaginario di ragazzina che assisteva all'andare e venire continuo dalla Germania, da parte dei miei zii e dei genitori di quasi tutti i miei amici. Poi, più per curiosità che per convinzione, un giorno del 1970 è partito anche mio padre, per andare a lavorare alla Fiat del miracolo economico, e quando, l’anno dopo, è venuto a prenderci per portarci nella grande Torino, ho cominciato a conoscere il sentimento e le opportunità che offriva quell’esodo non ancora finito. Tutto,però, si svolse nell’arcodipochi anni; èdifficile, infatti, estirpare dalla propria terra una solida radice, comequella dimiopadre emio nonnoche,pur avendoscelto l’esperienza migratoria, poi non hanno voluto rinunciare alla vita all’aria aperta, allo spettacolo della natura, alla semina della loro terra e all'attesa dei frutti. Esiste, ad ogni modo, anche un simbolo di quella mia emigrazione da bambina. Lo conservo tuttora con curasul mio comò:è unabambola, che, in un freddo Natale dei primi anni Settanta, ho ricevuto dalla grande casa automobilistica, cheaveva istituito una grande festa, in una specie di “paese dei balocchi”, per la consegna dei doni natalizi ai figli degli operai.
La mia bambola della Fiat, dunque, come i bauli di nonno Leonardo, come la pesante cassapanca dei primi del Novecento, appartenuta a Domenico Italiano e ritrovata a Favelloni di Cessaniti.
Assunta Scorpiniti

Commenti

  1. Il mio baule e' stato uno zainetto di una multinazionale del software

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