Briatico Vecchio memorie, immagini, speranze tradite
Qualche giorno fa l'amico e fotografo professionista Antonio Renda mi ha gentilmente inviato alcune delle sue foto ritraenti l'antico abitato di Briatico Vecchio. Sapeva, Antonio, di solleticare il mio animo "briaticotu" e che mi sarei affrettato a pubblicarle sulle pagine del nostro Blog. Ho cercato, allora, qualcosa che potesse incorniciare le sue magistrali foto in modo più degno delle mie parole e così ho trovato, grazie al gentilissimo Franco Vallone, alcuni scritti e poesie dedicati a questo dimenticato angolo di Calabria.
Briatico Vecchio è sempre stato per me una presenza costante nelle storie di tempi remoti raccontatemi dagli anziani, un luogo nascosto in cui rifugiarsi per godere di qualche ora di distacco da tutti e da tutto, un posto in cui si sente a pelle che lì la vita si è fermata. Immergendosi nelle sue valli, inerpicandosi sui suoi costoni, districandosi tra il suo disordine di macerie e cespugli, si ha sempre l'impressione di trovarsi in apnea, di trattenere il fiato per resistere ai sensi che ti comunicano molteplici e mutevoli sensazioni. I profumi della natura selvaggia, il rumori ovattati dalla solitudine, la fatica accentuata dal peso della storia, i ricordi di chi ti descrisse quei luoghi e i loro segreti, la vista annebbiata da intime lacrime di gioia per il ritrovato contatto con un mondo ed un tempo passati.
Purtroppo non solo il fato è stato inclemente con Briatico Vecchio, ma anche e soprattutto gli uomini. Il borgo, infatti, dopo il terremoto del 1783 è stato quasi sistematicamente demolito per il recupero di materiali edili durante la pur necessaria ricostruzione nel sito odierno; quindi fu completamente abbandonato dalle sue genti e da tutte le amministrazioni locali e non che negli anni si sono susseguite. Spesso si è sentito parlare di un recupero di parte dell'abitato da parte della soprintendeza per i beni culturali, ancora più spesso si è assistito a manifestazioni popolari di recupero archeologico "fai da te" spesso più dannose che a vantaggio di un bene che meriterebbe ben altro tipo di attenzioni. Ad oggi alle tante parole non sono mai seguiti fatti concreti e rilevanti di un serio interessamento verso Briatico Vecchio e la sua storia. Il vecchio borgo è ancora lì in silenzio, aggrappato ai suoi costoni con la tenacia che l'ha sempre caratterizzato, nascosto alla vista dalla sua selvaggia vegetazione, in attesa di una riscoperta che forse non arriverà.
Nessuno meglio di Domenico La Torre seppe descrivere in modo così vivido e quasi partecipe il vecchio abitato di Briatico Vecchio e la sua tragedia:
"Sulla strada provinciale che da Briatico capoluogo si arrampica verso le borgate di S. Leo, S. Costantino, Potenzoni e Mandaradoni, dopo aver raggiunto S. Leo Vecchio e la pianura omonina, guardando a sinistra appaiono le valli di Briatico Vecchio. Incassata in quelle valli, tra le contrade "Piana del Campo", "S. Rocco e Piana di S. Leo" una collina si eleva fino a circa 180 mt. di altezza e sulla sua sommità, tra le chiome di qualche albero isolato, si scoorgono dei ruderi. Sovrasta quei ruderi il massiccio piano-terra di un Castello Svevo-Angioino che, dal lato nord della collina si staglia a picco sullo strapiombo con la sua mole oscura e domina la vallata desolata e selvaggia, intonando un inno alle vicende umane tramontate nel silenzio e nell'eternità. Sulla collina coperta di macerie, facile asilo di corvi e di altri animali selvatici, là dove oggi regna il silenzio, interrotto soltanto dal rumoreggiare delle acque del fiume Murria che a fondo valle scorrono rapide e vanno a fecondare i campi o a disperdersi nelle azzurre acque del Golfo, sorgeva un tempo l'antica Città di Briatico. La cittadina si adagiava sul culmine della rupe, su una vasta superficie degradante a terrazze da tre lati del Castello sino alle mura di cinta più in basso, dove quattro bastioni incorporati nelle stesse mura completavano la formidabile difesa naturale dell'abitato, costituita dalla sua posizione topografica che l'aveva risparmiato dalle stragi e dai saccheggi dei Saraceni nel 933 e dalle non meno sanguinose scorrerie dei pirati turchi dopo il 1500, durante il predominio Ottomano nel Mediterraneo. Due porte consentivano l'accesso nell'abitato: una si apriva sulla strada che discendeva alla fontana e risalendo dalla parte opposta della valle, passava daventi alla Chiesetta rupestre di S. Maria del Ginocchio, raggiungeva la Piana del Campo e discendeva all'Abbazia del SS. Salvatore, dove si diramava per la Rocchetta e per Vibona. L'altra, chiamata Porta della Punta si apriva su una mulattiera che collegava Briatico a S. Leo. L'abitato, arroccato da secoli su quella rupe, aveva subito diversi terremoti, quando nel tardo mattino del 5 Febbraio 1783 fu scosso da uno spaventoso terremoto e quanto i fremiti della natura si esaurirono era scomparso sotto un ammasso di macerie. Il cataclisma lo aveva raso al suolo causando la morte di oltre 50 persone, mentre i sopravvissuti, terrorizzati, fuggivano cercando rifugio al di là delle valli. Oggi, a distanza di poco più di due secoli da quell'infausta data, chi si avvicina al piede della collina scorge, in alto, qualche rudere e gli sembra impossibile che sul colle possono esistere i resti dell'antica Briatico. Eppure è così! E chi si arrampica e faticosamente raggiunge la sommità della rupe per osservare da vicino l'immane distruzione, ma soprattutto per soddisfare l'intimo desiderio di individuare la dimora dei propri antenati e di compiere un mesto rito di amorevole accostamento spirituale con gli scomparsi, si trova improvvisamente davanti ad un triste spettacolo e a tu per tu con la realtà della vita e della morte! Non è leggenda nè fiaba; è il primo contatto con un enorme ammasso di macerie, di muri abbattuti e sbriciolati, di mucchi di sassi, di scheletri di povere case, di edifici, di chiese e di conventi ridotti a cumuli informi di pietre che coprono le viuzze e le strade. E dal groviglio di sterpi e di spine emergono i ruderi della Chiesa di S. Lucia, di S. Nicola, dell'Annunziata, di S. Michele, di S. Pietro e Paolo e dei conventi di S. Maria del Carmelo, di S. Domenico e di S. Chiara. Sono questi gli unici elementi ponderabili del passato, i soli testimoni della catastrofe che indicano a coloro che cercano un contatto spirituale con le loro genti il luogo dove quelle vissero ed agirono. Il primo contatto con la città morta è indimenticabile perchè rivela ai nostri sensi il suggestivo fascino che stimola la nostra mente a ricostruire ciò che l'occhio attento fissò nella memoria. E nel religioso silenzio che avanza sulle cataste di pietra di muri abbattuti per osservare lo sfascio e per compiere un mesto rito d'amore, sente aleggiare sulle rovine gli spiriti degli scomparsi ed è portato col pensiero a rifare a ritroso il cammino del tempo e delle memorie. Dallo scrigno dei ricordi balzano allora alla nostra mente i racconti dei nostri avi sulla tragedia vissuta dai loro antenati e le belle favole della loro vita. Si stabilisce allora tra colui che erra sul luogo del dramma e le ombre vaganti sui ruderi quel contatto spirituale desiderato che parla al cuore e inonda l'animo di tristezza e di malinconia. E da quel contatto si trae l'insegnamento che, al di là delle nostre modeste persone esiste la natura, possente e perfetta finchè vincoli a sè le forze smisurate del Cosmo, ma inesorabile ed implacabile quando le scatena con tutta la loro energia per annientare il genere umano e le sue opere. Il 5 Febbraio 1783 confermò, ancora una volta, la fragilità dell'uomo di fronte alle forze della natura, quando sul quadrante degli esseri viventi è segnata la parola fine!"
"Sulla strada provinciale che da Briatico capoluogo si arrampica verso le borgate di S. Leo, S. Costantino, Potenzoni e Mandaradoni, dopo aver raggiunto S. Leo Vecchio e la pianura omonina, guardando a sinistra appaiono le valli di Briatico Vecchio. Incassata in quelle valli, tra le contrade "Piana del Campo", "S. Rocco e Piana di S. Leo" una collina si eleva fino a circa 180 mt. di altezza e sulla sua sommità, tra le chiome di qualche albero isolato, si scoorgono dei ruderi. Sovrasta quei ruderi il massiccio piano-terra di un Castello Svevo-Angioino che, dal lato nord della collina si staglia a picco sullo strapiombo con la sua mole oscura e domina la vallata desolata e selvaggia, intonando un inno alle vicende umane tramontate nel silenzio e nell'eternità. Sulla collina coperta di macerie, facile asilo di corvi e di altri animali selvatici, là dove oggi regna il silenzio, interrotto soltanto dal rumoreggiare delle acque del fiume Murria che a fondo valle scorrono rapide e vanno a fecondare i campi o a disperdersi nelle azzurre acque del Golfo, sorgeva un tempo l'antica Città di Briatico. La cittadina si adagiava sul culmine della rupe, su una vasta superficie degradante a terrazze da tre lati del Castello sino alle mura di cinta più in basso, dove quattro bastioni incorporati nelle stesse mura completavano la formidabile difesa naturale dell'abitato, costituita dalla sua posizione topografica che l'aveva risparmiato dalle stragi e dai saccheggi dei Saraceni nel 933 e dalle non meno sanguinose scorrerie dei pirati turchi dopo il 1500, durante il predominio Ottomano nel Mediterraneo. Due porte consentivano l'accesso nell'abitato: una si apriva sulla strada che discendeva alla fontana e risalendo dalla parte opposta della valle, passava daventi alla Chiesetta rupestre di S. Maria del Ginocchio, raggiungeva la Piana del Campo e discendeva all'Abbazia del SS. Salvatore, dove si diramava per la Rocchetta e per Vibona. L'altra, chiamata Porta della Punta si apriva su una mulattiera che collegava Briatico a S. Leo. L'abitato, arroccato da secoli su quella rupe, aveva subito diversi terremoti, quando nel tardo mattino del 5 Febbraio 1783 fu scosso da uno spaventoso terremoto e quanto i fremiti della natura si esaurirono era scomparso sotto un ammasso di macerie. Il cataclisma lo aveva raso al suolo causando la morte di oltre 50 persone, mentre i sopravvissuti, terrorizzati, fuggivano cercando rifugio al di là delle valli. Oggi, a distanza di poco più di due secoli da quell'infausta data, chi si avvicina al piede della collina scorge, in alto, qualche rudere e gli sembra impossibile che sul colle possono esistere i resti dell'antica Briatico. Eppure è così! E chi si arrampica e faticosamente raggiunge la sommità della rupe per osservare da vicino l'immane distruzione, ma soprattutto per soddisfare l'intimo desiderio di individuare la dimora dei propri antenati e di compiere un mesto rito di amorevole accostamento spirituale con gli scomparsi, si trova improvvisamente davanti ad un triste spettacolo e a tu per tu con la realtà della vita e della morte! Non è leggenda nè fiaba; è il primo contatto con un enorme ammasso di macerie, di muri abbattuti e sbriciolati, di mucchi di sassi, di scheletri di povere case, di edifici, di chiese e di conventi ridotti a cumuli informi di pietre che coprono le viuzze e le strade. E dal groviglio di sterpi e di spine emergono i ruderi della Chiesa di S. Lucia, di S. Nicola, dell'Annunziata, di S. Michele, di S. Pietro e Paolo e dei conventi di S. Maria del Carmelo, di S. Domenico e di S. Chiara. Sono questi gli unici elementi ponderabili del passato, i soli testimoni della catastrofe che indicano a coloro che cercano un contatto spirituale con le loro genti il luogo dove quelle vissero ed agirono. Il primo contatto con la città morta è indimenticabile perchè rivela ai nostri sensi il suggestivo fascino che stimola la nostra mente a ricostruire ciò che l'occhio attento fissò nella memoria. E nel religioso silenzio che avanza sulle cataste di pietra di muri abbattuti per osservare lo sfascio e per compiere un mesto rito d'amore, sente aleggiare sulle rovine gli spiriti degli scomparsi ed è portato col pensiero a rifare a ritroso il cammino del tempo e delle memorie. Dallo scrigno dei ricordi balzano allora alla nostra mente i racconti dei nostri avi sulla tragedia vissuta dai loro antenati e le belle favole della loro vita. Si stabilisce allora tra colui che erra sul luogo del dramma e le ombre vaganti sui ruderi quel contatto spirituale desiderato che parla al cuore e inonda l'animo di tristezza e di malinconia. E da quel contatto si trae l'insegnamento che, al di là delle nostre modeste persone esiste la natura, possente e perfetta finchè vincoli a sè le forze smisurate del Cosmo, ma inesorabile ed implacabile quando le scatena con tutta la loro energia per annientare il genere umano e le sue opere. Il 5 Febbraio 1783 confermò, ancora una volta, la fragilità dell'uomo di fronte alle forze della natura, quando sul quadrante degli esseri viventi è segnata la parola fine!"
Sono qui tra i ruderi
dell'antico villaggio raso al suolo
da un sotterraneo
crollo. Nascimento
ebbe qui la gente,
ora scomparsa, e riconosco il rudere
del paterno lare.
Mi guardo. Un largo mareggiare
d'erbe copre le pietre e su quel mozzo
muro una pianta rampicante gitta
un mantello fantastico di fiori
che a lo spirar del vento
cangia i suoi colori,
e la fonte superstite
versa un'acqua sì pura
che gli abitanti dei villaggi nuovi
vengon qui nel villaggio estinto a bere,
portati
inconsapevolmente
a collegarsi ai padri
nella continuità di un liquido fluire.
Discopre la Natura
da tal continuità una sua legge;
onde non v'è frattura
che non si colmi in veste di bellezza,
e non lava indurata
che non accolga germi di ginestre;
ed è sì pronto,
sotto nubi ancora oscure,
lo spiegarsi dell'iride
ch'ella è madre
per quando sembra a noi esser matrigna.
Nella luce di cui s'avvolge e vive
le ragioni palpitano del Tutto.
Immersi dentro questa
divinità di luce
non l'evenienza contingente importa,
ma quel che la nostra anima comprende
di vastità serena di orizzonti;
e sentire
che i nostri morti sono ancor con noi,
e vibriamo s'annunzi
di nascituri,
e sentire
che l'attimo di nostra vita è sacro
perchè pieno d'eterno e d'infinito.
Antonino Anile
Mi trovo a camminare senza meta
un'immenso uliveto mi circonda.
Assieme a me nessuno,
solo il Murria,
col suono delle sue dolci acque,
mi porge la destra
e mi accompagna nella mia solitudine
dietro di me
scorgo appena il mare
e davanti vedo infittirsi
sempre più sterpi.
Ho paura
eppur continuo,
mi lascio vincere da un richiiamo dolce
soave, lontano,
il richiamo del sapere.
Ad un tratto
vedo aprire l'essere dei miei sogni
delle mie notti insonni:
“Briatico Vecchio”
La paura scompare,
il cuore si allarga,
la bocca mi si apre,
mi si sgranano gli occhi.
Fermo restando
ti guardo Briatico mio.
Quieto, immobile
e, nel contempo, fiero ed austero
ti stagli dinnanzi ai miei occhi.
Circondato dai rovi e dalle ginestre
ed abitato sol da serpi.
offri rifugio solo
a qualche volpe astuta e ladra
e solo in questo
la tua omonima ti eguaglia.
Quant'eri bello Briatico mio,
quant'eri grande,
ma che ne è oggi delle tue virtù?
che ne è dell'amore, del rispetto,
della giùstizia dell'amicizia fraterna
abbruttire come sono dai tuoi successori
ma tempo verrà…
Solo se penso a questo,
non posso fare a meno di piangere,
spinto oltre che dal dolore,
dalla disperazione e dalla rabbia.
Anonimo
Si ringraziano Antonio Renda per le magnifiche foto, Franco Vallone per le poesie ed le fonti e quanti amano e non hanno mai dimenticato Briatico Vecchio.
Credo che il testo della poesia di Antonino Anile vada verificato ho l'impressione vi siano delle inesattezze. cordiali saluti
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