Il Castello di Cleto sospeso tra storia e leggenda

Appresa la notizia, Klete s’imbarcò alla volta dell’Asia minore, decisa a recuperare il corpo della sua pupilla e darle degna sepoltura. Sbarcata sulle coste tirreniche calabresi, decise di non proseguire il suo viaggio, non si sa bene perché, e di fondare una città alla quale dare il suo nome. Nome che sarebbe dovuto restare inalterato nei secoli per tutte le donne regnanti.Più avanti, vedremo perché.
Il primo nucleo abitativo fu piccolo, ma ambizioso, tant’è che raggiunse grande sviluppo ed adeguata importanza nella Magna Grecia, in tempi relativamente brevi, dal momento che il primo solco perimetrale fu tracciato nel X secolo a.C.

Dal XVI secolo in poi, godettero di un periodo di floridezza e benessere, con interessi commerciali attivi ed estensione del territorio anche nel retroterra. L’arrivo e l’assedio dei barbari sfociò nella distruzione di case, chiese e botteghe.
Agli albori del Medio-Evo, la decadenza raggiunse livelli mai conosciuti prima, nonostante l’importanza conservata per motivi strategici. La popolazione diminuì, il territorio di appartenenza ebbe confini ristretti. Le prime avvisaglie di miglioramento si ebbero con l’arrivo dei Normanni, mentre Federico II di Svevia fu il vero artefice della rinascita del luogo, definito non più Cleto ma Pietramala fino al 1863.
Ma quando fu cambiato il nome imposto dalla Regina fondatrice? Ancora oggi, non si sa.
Le versioni sono tante. Le più accreditate sono due: una è fondata sul presupposto che al momento della costruzione del Castello, suggerita per motivi di sicurezza, si decise di dare allo stesso, il nome dei signori al servizio dei Normanni. Da qui, l’espressione appropriata di Castro dei Pietramala. La seconda verte invece sull’ anatema, si fa per dire, di un vescovo. In realtà, si trattò della considerazione di un povero ecclesiastico, che ebbe la sfortuna di spezzarsi una gamba in un paese caratterizzato da roccia dura, impraticabile, dunque, “mala” per chi avesse osato scalare i 250 metri d’altezza sul livello del mare.
Identica definizione dà pure il Padula, che va oltre il significato comune, aggiungendo una spiegazione inappellabile sulle formiche, le sole in grado di salire la Pietra grande, inaccessibile a chiunque.

L’itinerario comincia e prosegue su gradoni e scalini, pendii scoscesi e piane troppo corte per tirare il fiato, ma la vista della quale si gode durante le pause, vale bene l’affanno.
Nel piccolo centro storico, permangono scalette d’accesso accanto a dimore di pietra che sanno di sacrificio e di fumo. Anche le grotte scavate nella roccia, recano la firma della mano dell’uomo che le modellò e le abitò, sin dalla notte dei tempi.
Man mano che si procede verso l’alto, case e chiese appaiono sotto un panorama di tegole molto suggestivo. Le abitazione sono tante, i luoghi di culto, due. Uno è dedicato a Maria SS Assunta e l’altro alla Madonna della Consolazione.

In buona condizione sono invece il vecchio mulino e la macina, da ammirare all’inizio del percorso, quando il fiato è ancora lungo ed il corpo affatto stanco.
Cleto fa parte della Provincia di Cosenza, da cui dista 54 km.
Osservandola dall’alto, si vede compresa tra Aiello, Amantea e Serra d’Aiello, comuni anch’essi del Cosentino, e Martirano, Nocera Torinese e San Mango d’Aquino, facenti parte della Provincia di Catanzaro.
In tempi non più recenti, Cleto ebbe ruolo predominante e non, tra le realtà territoriali limitrofe. Alterne vicende caratterizzarono il periodo feudale, angioino e francese.
Gli abitanti, fieri come sempre della loro libertà, mal sopportarono il giogo degli stranieri. Furono invece, vivaci e combattivi durante il Risorgimento, al quale sacrificarono fior di gioventù.
Tra le persone che vollero lasciare traccia di sé, è il caso di citare la moglie del tesoriere Arnone, Eliadora Sambiase, che sintetizzò su di una lastra di marmo la sua filosofia di vita: “Offro templi a Dio, limpide acque e orti verdeggianti alle ninfe, ed il Castello di Savuto albergo a chi ne ha bisogno”.

Emma Viscomi
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